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Daniel Caesar – Figlio di Spergy

Daniel Caesar – Figlio di Spergy

      Daniel Caesar non è nuovo a cantare della gravità delle nostre relazioni più preziose. Brani come 'Best Part', 'Get You', 'Streetcar' sono melodie strazianti che catturano perfettamente il sapore agrodolce della connessione umana. Ora, Caesar torna con il suo quarto album in studio, 'Son of Spergy', solo che questa volta deve fare i conti con qualcosa di molto più vicino a casa: il suo rapporto con il padre e, per estensione, con se stesso.

      'Son of Spergy' non si apre tanto con un botto quanto con una benedizione. 'Rain Down', con Sampha, è più una preghiera che un'introduzione. I due si scambiano il ritornello «Signore, lascia che le Tue benedizioni piovano su di me», con il tono di Caesar che trema da qualche parte tra riverenza e dubbio. È un inizio quasi esitante per un artista che negli ultimi anni ha oscillato tra autopreservazione e autoesposizione. Se 'Never Enough' (2023) vedeva Caesar alla ricerca della perfezione, 'Son of Spergy' sembra lui che si smonta in tempo reale.

      Secondo lo stesso Caesar, l'album è nato dalla parola "riconciliazione". Intitolato con il soprannome del padre, è un tentativo di mappare la distanza (e l'inquietante somiglianza) tra padre e figlio. Il risultato è uno scontro più ampio con la mascolinità, con la fede e con il marciume dell'autoimportanza. In 'Root Of All Evil' implora: «Sono un uomo o una bestia? Qualcuno, per favore, disciplìnami». In 'Who Knows' l'auto-lacerazione si approfondisce: «Forse sono un codardo / Nascondendomi nel travestimento di un fiore sempre generoso». Si comincia a chiedersi: Daniel Caesar sta bene?

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      I collaboratori di Caesar — Bon Iver, Yebba, Blood Orange — non spezzano l'incantesimo quanto lo amplificano. 'Moon', co-scritta con Justin Vernon, è un sogno febbrile acustico. 'Touching God' è un inno disperato che crolla nel Padre Nostro a metà brano, tre voci che si aggrappano alla trascendenza. È il raro momento in cui la fame spirituale di Caesar sembra pienamente incarnata piuttosto che recitata: meno «immaginario religioso come metafora», più «preghiera reale di misericordia».

      Eppure, nonostante il coraggio tematico, 'Son of Spergy' alla fine vacilla nell'inerzia. È Daniel Caesar in versione light, nel migliore dei casi. La produzione gira attorno a un drenaggio ritmico — si adagia troppo spesso in una monocroma sfocatura a tempo medio che un tempo pareva meditativa ma ora rischia di diventare monotona. I testi somigliano più allo scrivere un diario in flusso di coscienza che i miei terapeuti mi ordinano di fare ogni mattina, piuttosto che all'ingegnosità poetica senza tempo che ci aspettiamo. Caesar vuole che 'Son of Spergy' suoni come il cielo del Montana dove gran parte dell'album è stata concepita: infinito, aperto, caldo, silenziosamente divino. Ma i paesaggi ampi e aperti possono risultare vuoti e tediosi quando non li riempi di movimento.

      Tuttavia, c'è potere nell'imperfezione. 'Son of Spergy' non ristabilirà la corona sonora di Caesar, né ci prova. È un artista in piena muta, che si libera del bisogno riflesso di compiacere, imparando a stare con i silenzi imbarazzanti. Il risultato non è sempre bello, ma è raramente disonesto.

      7/10

      Parole: Irene Monokandilos

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