I rocker inglesi sorridono di fronte al dolore...
21 · 08 · 2025
‘I’ve felt better’ è nata come risposta generica del frontman Matt Bigland, quando gli amici gli chiedevano come stesse mentre lottava contro malattie che minacciavano la sua vita. Aveva passato anni alle prese con un morbo di Crohn preesistente che si scontrava con la colite ulcerosa, sottoponendosi a un intervento medico dopo l'altro. Malattie, tra cui ricoveri ripetuti, interventi chirurgici invasivi e perdita di peso, hanno contribuito al peggioramento del suo stato mentale. Solo nel suo letto d'ospedale, costretto a fare i conti con la propria mortalità, ha vissuto ciò che descrive come “una sorta di morte dell'io”. Lasciare alle spalle una vita passata durante la convalescenza ha dato vita a ‘I’ve Felt Better’, un'opera di dodici tracce che mostra Bigland, il bassista Jim Cratchley e il batterista Mike Sheils rinvigoriti da un nuovo senso di urgenza.
Non sorprende che, nonostante tutto, i Dinosaur Pile-Up abbiano confezionato un album che sorride al dolore. ‘Bout To Lose It’ apre l'album con uno scontro di energia, la costruzione costante di batteria e chitarra alimentate dal grunge che conduce a un lacerante ululato di Bigland. Alternando strofe da headbanger a un ritornello da cantare a squarciagola, i testi affrontano l'alienazione del dubbio di sé, segnalata dalle righe iniziali: “I guess I’m back on the edge / Maybe I never left”. Nel senso più lusinghiero, i Dinosaur Pile-Up suonano come una band che un fratello, una sorella o un cugino più grande ti presenterebbe in un film di formazione dei primi anni 2000. È l'enfasi su riff orecchiabili e martellanti e testi conversazionali (e talvolta sardonici).
Il brano che dà il titolo all'album segue, con un sound che ricorda il pop punk degli anni 2000. ‘I’ve Felt Better’ guarda la vita con un taglio umoristico, mentre Bigland ricorda i suoi spaventi per la salute e scrive rime ironiche, osservando il mondo in cui è riemerso — “Why’s everything / Lost its meaning / Crazy how much / Two years could suck” e prendendo apertamente in giro la cultura delle celebrità — “The world is fucked / Ye’s a fucking nazi / MGK’s a punk”. ‘Big Dogs’ continua a riferirsi a quest'ultima, abbaiando letteralmente all'élite dell'alta società. Forse la traccia più rumorosa dell'album, gli urli di Bigland sono contagiosi. Il ritornello è un grido che scuote i timpani che non si può fare a meno di immaginare un pubblico imitare: “Big dogs eat for free”.
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L'album si apprezza al meglio quando la sua vulnerabilità emerge. ‘Punk Kiss’ mostra un romanticismo nella scrittura di Bigland, poiché la furore del ritmo è bilanciata da un'ode a colei che è scappata (al concerto rock, per intenderci). ‘Quasimodo Melonheart’ si apre con il rintocco di un orologio a torre per introdurre una rievocazione dell'amore tra il gobbo e la fanciulla. Nonostante la sua autoironia, è anche affascinante, ed è rinfrescante sentire emergere una sensibilità. ‘Big You and Me’ è il momento culminante della raccolta. I suoi testi sono i più intimi — “As the angels / Look down upon us and / They crane their necks low / To observe the miracle they / See down below” — senza però sacrificare la forza trainante della strumentazione. Il colpo della linea di basso e della batteria in ogni strofa si sviluppa in una chitarra che si innalza nel ritornello, e il contrasto tra i due produce alcuni dei momenti più anthemici del disco.
‘I’ve Felt Better’ è un ascolto gioioso. Anche quando predilige la malinconia, ogni canzone è eseguita con un'energia vivace che risulta irresistibile da cantare insieme (o, almeno, da accompagnare con un leggero headbang). Fa bene rivedere i Dinosaur Pile-Up.
7/10
Parole: Paulina Subia
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