“Valley Ford” di Renny Conti è un colpo di onestà sobria dal sapore di caviale; pieno di affermazioni di indifferenza emotiva che si sezionano da sole una volta ammesse.
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Ford (sostantivo): un punto poco profondo in un fiume o ruscello che si può attraversare.
Ford (verbo): passare attraverso quel suddetto tratto poco profondo d’acqua.
Usare sostantivo e verbo insieme in una frase – I ford a ford – è un atto autoreferenziale.
Indipendentemente da quanto goffa possa essere “I ford a ford” come sequenza di parole, il suo peso non offusca la sua interpretazione: io attravers o, sto attraversando, mi sto attraversando.
Attraversarsi significa mettere in discussione tutto. E Renny Conti fa proprio questo in “Valley Ford” – il singolo di follow-up del suo disco omonimo, Renny Conti, nonché la sua prima uscita per Mom+Pop.
Valley Ford – Renny Conti
Ero nel cortile sul retro
aspettando la luna piena
Niente fa mai male
se non gli permetti mai di toccarti
Porta il mio, porta il mio,
porta il mio corpo a casa
Non serve mai una dose
se non hai mai un problema
Sognando una vacanza,
ma i miei soldi sono arrivati tardi
Manipolando il tempo,
desiderando di essere in un altro stato
Porta il mio, porta il mio,
porta il mio corpo a casa
Perché ho paura di
perdere persone che conosco appena
Conti è esitante e alla ricerca, canta con la cadenza di chi è sull’orlo di una realizzazione. Ogni verso arriva con un tonfo di riconoscimento, le pause in mezzo si allungano abbastanza perché gli ascoltatori possano registrare un significato ma non tanto da indugiare. Non c’è tempo per soffermarsi qui, dobbiamo andare avanti.
Renny Conti © Gabe Long
Renny Conti © Gabe Long
La seconda riga della canzone, “Nothing ever hurts if you never let it touch you,” cattura al meglio l’etica del brano.
Conti canta da uno stallo; uno stato dell’essere in cui la vita agisce su di lui invece che il contrario. “Never need a fix if you never have a problem.” Queste osservazioni non suonano come flagellazioni, ma più come semplici constatazioni di fatto. Con una vocalità simile a quella del suo brano “Looking at the Geese” – in cui racconta che le muschiere sono i più piccoli dei mammiferi e che i cammelli più costosi al mondo valgono 53 milioni di dollari – Conti articola le frasi in “Valley Ford” come verità innate alla vita.
Did I lie on, try on you?
Did I move on, move on through?
Will I get back to you?
Il brano è un caso di studio grintoso sulla distanza impiegata come misura difensiva mentale. Dire queste cose così chiaramente significa attirare l’attenzione su di esse, ora bisogna affrontarle e sezionarle. La mera esclamazione di queste affermazioni mette in discussione la loro legittimità. Conti agita un mantello rosso verso il toro che è il suo stesso senso di apatia, preparandosi alla confronto che lo attende.
Renny Conti © Gabe Long
Elencando ogni verso come se fosse un’osservazione sul campo oggettiva e non qualcosa con cui sta personalmente lottando, è solo quando Conti si chiede, “Did I lie on, try on you? / Did I move on, move on through?” nell’ultimo minuto della canzone che il serbatoio si rompe. La canzone esplode in un amalgama di folk shoegaze. Rullanti esplosivi e piatti che si schiantano spingono in avanti la melodia intrecciata di lap steel e chitarra, prima di cedere al ronzio tranquillo dell’amplificatore.
Da qualche parte nella mia memoria
abbiamo passato una notte da soli
Ci siamo svegliati in California
stando a casa dei miei genitori
E fuori da Valley Ford
non riuscivo a vedere una strada davanti a me
L’acqua che sale dal serbatoio
e copre tutto
Did I lie on, try on you?
Did I move on, move on through?
Will I give back to you?
Sì, infatti – fordare significa attraversare; sopportare. Una meditazione resistente sull’indifferenza puntuale e la dissonanza interna che semina, “Valley Ford” di Renny Conti è tanto franca quanto pensierosa e cupa. Lo cogliamo in movimento, testimoniando la scia di onestà bruciante e arguzia tattica che lascia dietro di sé.
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«Valley Ford» di Renny Conti è un colpo di onestà sobria, lussuosa come il caviale; ricco di dichiarazioni di indifferenza emotiva che, una volta ammesse, si smontano da sole.