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The Magnetic Fields celebrano '69 Love Songs' alla Union Chapel di Londra

The Magnetic Fields celebrano '69 Love Songs' alla Union Chapel di Londra

      The Magnetic Fields stanno attualmente portando in tour nel Regno Unito il loro leggendario album triplo, un concerto colossale che verrà suddiviso in due serate.

      Uscito nel 1999, ’69 Love Songs’ fu un tour de force iconoclasta. Come indica il titolo, comprende 69 canzoni d’amore, ognuna composta in uno stile diverso, coprendo l’intero spettro dell’esperienza romantica, dagli incontri di lussuria alle rotture, fino a momenti di abietta indifferenza.

      Successo critico immediato, ebbe un enorme impatto sulla scena musicale alternativa. La musica oscillava fra i generi con una rapidità profonda, quasi inquietante. Era l’album-concetto per antonomasia. Stranamente, guardava anche verso il suo opposto: un futuro di playlist algoritmiche dove il brano regnerebbe sovrano e i singoli sarebbero privilegiati rispetto alle opere nel loro insieme. ’69 Love Songs’ incarnava qualcosa del suo tempo, l’epoca del grande album sperimentale, preannunciandone al contempo il crollo.

      Arguto e sardonicamente ironico, non si riusciva mai a capire fino a che punto Stephen Merrit stesse prendendo in giro il genere scelto o perfino il suo ascoltatore. Una tensione giocosa monta lungo i tre CD. Pur essendo i pezzi singolarmente toccanti, la nostra percezione della musica muta, di riflesso, mano a mano che ci addentriamo. Può esistere sincerità in mezzo a tale contraddizione o quando viene riprodotta a tale volume? Era ingenuo, per esempio, trovare commovente ‘Abigail Belle of Kilronan’? O essere colpiti da ‘Epitaph for My Heart’ quando stava accanto a brani volutamente insensati come ‘Punk Love’ o all’ispirata edoardiana e grammaticalmente ambigua ‘For We Are the King of the Boudoir’? Forse ciò rifletteva semplicemente la pluralità dell’esperienza umana. Eppure ad ogni svolta l’album sembrava attirare l’attenzione sugli atti di manipolazione e artificiosità implicati nel confezionare una canzone. Si poteva essere indotti alla sentimentalità da una ballata, per poi essere scossi da un battito techno in contrasto, come se si venisse risvegliati a colpi, ricordando che era tutto solo una messa in scena. Anche il titolo dell’album risultava ironicamente ammiccante.

      Questa ironia fondamentale continua a trasmettersi magnificamente. Se possibile, l’impostazione live la rende ancora più evidente. Forse a causa del formidabile setlist, la band procedeva senza molte introduzioni o raccordi. Ogni canzone stava da sola come un pezzo espositivo, le prospettive disgiunte e le tonalità venivano messe in forte risalto.

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      Nonostante la sua natura prolifica, Stephen Merrit manteneva una presenza laconica. Alla seconda serata i compagni di band lo pressarono visibilmente a interagire col pubblico. I suoi interventi erano asciutti, osservazionali e quasi cripticamente brevi. Fece notare che, per ragioni a lui ora sconosciute, le prossime due serate avrebbero presentato molte canzoni sugli animali. Anche sui paesi. La band rimase seduta per tutto il concerto; in un’altra rara battuta a margine, Merrit ci informò che si erano procurati le sedie a Bristol, che inizialmente erano rimasti delusi dallo scricchiolio, ma il problema sembrava essersi risolto da solo. Il resto dei membri non disse affatto nulla. Fu stranamente rinfrescante rinunciare allo scambio rituale di battute (spesso condiscendente) tra una band e la città in cui si trovano. Come la musica fortemente autoreferenziale, questo scambio impacciato richiamava l’attenzione sulla stessa stranezza della performance, sulla nostra aspettativa di recitazione e di sentimento costruito.

      Union Chapel è una venue difficile con cui lavorare. Pur essendo bella e imponente, la sua acustica ecclesiastica può inghiottire il suono e andare contro qualsiasi senso di immediatezza o vicinanza. Piuttosto che cercare costantemente di riempire il vasto interno, spesso riducevano la musica ai suoi elementi essenziali, producendo versioni talvolta spettralmente inquietanti. Ciò funzionò particolarmente bene con uno dei loro brani più famosi, ‘The Book of Love’, che risultò toccante e fresco nonostante la familiarità. L’assolo di violoncello elettrico di Sam Davol in ‘I Shatter’ aveva un’intensità che richiamava alla mente scene del film Whiplash. Anche alcuni pezzi più sarcastici guadagnarono nuove dimensioni in questa atmosfera. Claudia Gonson offrì una versione elettrica di ‘How Fucking Romantic’, con i clic delle dita che riecheggiavano aspramente, le sue voci scintillanti e sincere messe a confronto con un cinismo nitido. Nel frattempo, brani che sembravano novità assunsero una forza esuberante: una versione deliziosamente stravagante di ‘Love is Like Jazz’ riuscì a rafforzare il suo messaggio centrale in modi che prima potevano passare inosservati.

      Su tutta la linea, le parti vocali erano stupefacenti. Alcuni riarrangiamenti ponderati accentuarono la loro estensione collettiva. Il baritono grave di Merrit venne posto in contrasto con il tono più alto e malinconico di Gonson in duetti giocosi. La nostalgica ‘Washing, D.C.’ fu reinventata per catturare una perdita d’innocenza avvenuta dalla sua prima uscita. Anthony Kaczynski portò un’energia travolgente ai suoi pezzi e un disinvolto aplomb. Ogni membro mantenne una presenza scenica abbastanza controllata; quando veniva introdotto movimento, era spesso a effetto comico. Una delle poche mosse di danza di Merrit (sempre seduto) sembrava suggerire una crocifissione pigra; occasionalmente estraeva un piccolo strumento, un triangolo, con grande e teatrale fioritura. Forse lui e Gonson si scambiavano un bicchiere di vino e si univano in una serenata ondeggiante e dispeptica. Per lo più, tuttavia, l’immobilità sul palco attirava gli ascoltatori più profondamente nel suono. Pur essendo l’illuminazione sempre estremamente efficace (da sottili tremolii a colorati strobo), questa esperienza fu più sonora che spettacolare.

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      Parole: Sean Gilbert

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