Portabandiera del boom del post-punk di fine 2010, una band che finora è riuscita a trascendere la caducità delle tendenze e a diventare una voce artistica sempre più atemporale e rivolta al mondo, il terzo album degli Squid vede il gruppo raddoppiare le proprie sensibilità, ormai così riconoscibilmente "squid", da non assomigliare più a nient'altro che a loro. Vale a dire: ansie irrimediabilmente profonde sulla distopia moderna e un senso di apocalisse incipiente; i gemiti profetici e maligni di Ollie Judge; una produzione spigolosa, con le dita contro la lavagna, così ravvicinata, spigolosa e organica da graffiare le vertebre come un filo spinato. Per una band che raramente ha suonato lontana dal punto di svolta del terrore paralizzante, sembra ora una mossa naturale produrre un disco letteralmente ispirato dal male stesso. Attraverso racconti di omicidi e occulto - influenzati da Manson, Murakami e simili - gran parte di "Cowards" rimbomba con il trauma e la suspense di un film horror. (Basti pensare all'intensità follemente lussuriosa del climax di "Blood on the Boulders" o agli archi agghiaccianti di "Fieldworks 1" per capire l'atmosfera prevalente). Se da un lato è il suono di una band che si guarda dentro, distillando i suoi principi fondanti e offrendo la sua manifestazione più completa, dall'altro evidenzia paradossalmente come stia anche crescendo oltre la propria pelle. Violini spavaldi, clavicembali e timpani e racconti di Tokyo, New York o dell'Europa dell'Est ci mostrano che, sì, gli Squid hanno girato il mondo, ma sono anche tornati a casa con un senso di sé più forte che mai, affilato come un rasoio grondante di sangue appena estratto.
La loro manifestazione più completa.