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AFI — L'argento fa sanguinare il sole nero…

AFI — L'argento fa sanguinare il sole nero…

      AFI non è mai stata una band che si tira indietro di fronte all’evoluzione. Anzi, la incoraggiano come una progressione naturale del loro suono. Negli ultimi 33 anni, i nativi della California si sono insinuati in ogni anfratto dei sottogeneri del rock, crescendo dal loro suono hardcore alle origini nei primi anni ’90, verso le loro tendenze punk classiche nel nuovo millennio, per poi immergersi nelle profondità dell’emo, dell’alternative, della new wave e oltre negli anni successivi. Gli AFI rimangono continuamente affascinanti, mantenendo un flusso impressionante di creatività che li contraddistingue come uno degli ultimi pilastri rimasti della loro epoca.

      Al centro, il gotico è sempre stato in agguato nella discografia degli AFI, generando una malinconia singolare che alimenta il loro fascino. Ora, con l’uscita del loro dodicesimo album, ‘Silver Bleeds the Black Sun…’, il quartetto emerge come pipistrelli dalla loro caverna, nelle loro forme completamente realizzate e vestite di nero. Si possono quasi sentire le ragnatele tessersi su ogni brano, le ossa che tintinnano nei manici delle chitarre e la teatralità morbosa amplificata dieci volte. La raccolta trova una familiarità in ode sparse ai predecessori goth degli AFI, ma riescono a reinventare il genere in modo audace ed elettrizzante.

      ‘Silver Bleeds…’ si apre con il turbinio di una chitarra acustica e la batteria di Adam Carson suona in sincronia. Strilli acuti e lontani inseguono da vicino, segnalando un pericolo avanti. ‘The Bird of Prey’ presenta le voci di Havok stilizzate in un lamento inquietante, che canta del passare del tempo. “Il tempo srotola il serpente / Il tempo definisce il mio volto,” si lamenta, suonando come la risposta della Generazione X a Peter Murphy. ‘Behind the Clock’ è il loro opus lynchiano, un’ode al compianto regista. Havok si ritrae come le muse principali di Lynch — “Sono Freddy Madison / Sono Betty Elms, Nikki Grace e Susan Blue nell’inferno di glitter,” canta monotono, evocando le dive destinate al tragico. Il brano si trasforma in uno spettacolo cinematografico a sé stante, mentre gli accordi prolungati del chitarrista Jade Puget e del bassista Hunter Burgan si intrecciano, mimando le strade tortuose delle Hollywood Hills che affascinavano l’autore surrealista.

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      ‘Holy Visions’ è destinata a riverberare sulle pareti di un macabro sotterraneo, i suoi pesanti synth e gli accordi vorticosi costringono anche i danzatori più riluttanti. Havok afferra letteralmente la salvezza — “Visioni sacre mentre nella mia mano sinistra / Tengo perline economiche / Su e giù per il rosario” — e la “casa” è un Inferno non detto che giace sotto di noi, nascosto nell’oscurità: “Quando il sole scompare dalla vista / mi lascia libero di svolazzare incauto.” Anche nei suoi momenti più strani, si trova conforto nell’oscurità.

      Anche quando i brani cominciano a mescolarsi un po’, sentire la versatilità verso cui gli AFI si sono spinti è elettrizzante. Sonicamente, le ingombranti influenze di The Cure, Siouxsie and the Banshees e The Sisters of Mercy seguono ogni accordo e ogni colpo di batteria. La voce di Havok muta in varie personalità, oscillando dalle melodie più alte ai ruggiti più profondi, dai sussurri alle urla. Il suo lirismo, sempre poetico, propone un mix seducente di poesia e dell’inconfondibile accenno di angoscia esistenziale. “E da tempo ho già superato me stesso,” grida nella ballad ‘Spear of Truth’. C’è una maturità distinta nelle sue parole, come la consapevolezza dell’artista in cui continua a trasformarsi.

      Il più poetico dell’album è ‘Ash Speck In A Green Eye’, dove intravediamo quel che forse è la migliore impressione di Baudelaire di Havok. “Sono una cenere che brucia nel fuoco della bellezza / E cado sul suo fragile coltello…. Sono un ultimo respiro nei sospiri degli angeli / Come un cielo d’autunno / un attacco di cuore…”, ulula, prima di invocare Jeanne Duval, la musa torturata di Baudelaire. Il brano di chiusura dell’album, ‘NOONEUNDERGROUND’ (probabile riferimento all’album degli AFI del 2006 ‘Decemberunderground’), respira a tono sommesso prima di esplodere in vita in un medley thrash-punk. Caoticamente brillante, è uno specchio delle radici hardcore degli AFI, fugace ma capace di lasciare il segno.

      Ascoltare gli AFI continuare a evolversi in artisti nuovi e più elevati è ancora più eccitante, e quest’era li trova allo stesso tempo familiari e raffinati. ‘Silver Bleeds…’ cattura meravigliosamente il richiamo continuo verso il Gotico: un’esultanza pura per l’esorcismo dei propri demoni interiori.

      8/10

      Parole: Paulina Subia

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