Per molte ragioni può sembrare un po’ azzardato paragonare Madi Diaz a Bruce Springsteen, ma il tempismo dell’uscita di Fatal Optimist coincide casualmente con un momento in cui la storia dell’album di Springsteen del 1982, Nebraska, viene rivitalizzata sul grande schermo (Deliver Me From Nowhere) e inevitabilmente nella forma di un cofanetto natalizio di (Gran)Dad appena in tempo.
Ma i paralleli tra i due album sono maggiori della sola ovvia essenzialità della musica. Come Springsteen nei primi anni Ottanta, Diaz è una cantautrice sulla trentina, già ben avviata nella sua carriera, anche lei reduce dai più grandi successi finora. Le nomination ai Grammy, il plauso della critica riservato ai suoi album più recenti, History of a Feeling e Weird Faith, e il riconoscimento derivante dal lavoro con Kacey Musgraves e Harry Styles hanno tutti contribuito a creare la sensazione di un’artista che, almeno, sta flirtando con il mainstream.
Come Nebraska, Fatal Optimist è un album in gran parte acustico, di quelli alquanto cupi e potenzialmente dannosi per la carriera. Per Diaz, la mossa ovvia sarebbe stata creare un disco pieno di brani radiofonici (dei quali ha scritto molti per sé e per altri), con ospitate di grandi nomi e una produzione patinata. Invece ha scelto l’integrità artistica anziché puntare al premio, una decisione che ha dato ricchi frutti.
È un album scarno e inquietante sulla fine di una relazione che deve più al folk britannico dei primi anni Settanta che a qualcosa di più contemporaneo: più Sandy Denny che Carrie Underwood; più Northumbria che Nashville, il lavoro di una scrittrice che segue la sua musa e rappresenta le circostanze che l’hanno generato. Racconta l’immediato dopo di una relazione che si deteriora (presumibilmente) mentre lei è in tour, dato il riferimento a voli, fusi orari e telefonate a lunga distanza mescolati ai suoi sentimenti contrastanti, all’auto-valutazione e a qualche sporadico momento di luce. Pur essendo introspettivo e quasi esclusivamente in prima persona, è troppo consapevole e intelligente per risultare narcisista.
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Dappertutto sembra che sia stata prestata grande cura alla sequenza dei brani. Non esattamente un ciclo di canzoni, presenta tuttavia un forte arco narrativo. Iniziare un album con una canzone intitolata Hope Less è una mossa audace, ma si chiude con il brano più vivace (e l’unico completamente orchestrato), Fatal Optimist, dove ella afferma risoluta “I hate being right”.
Questa descrizione sottovaluta i contenuti del terzo album del decennio di Diaz, e il viaggio tra i due punti è incantevole. Il vuoto valorizza piuttosto che sminuire i brani e già dalla seconda traccia, Ambivalence, è ovvio che qui si trova una autrice al culmine della sua ispirazione lirica e melodica.
Riuscire con un disco musicalmente minimalista costringe le parole e la voce a fare gran parte del lavoro pesante, ma in entrambi gli ambiti è deciso e potente: Fatal Optimist è, nonostante i temi trattati, avvincente al primo ascolto e un disco che si rivela ancora più ricco con ascolti ripetuti. Qui la sua voce ha spazio per respirare in un modo che non sempre avviene nei suoi album precedenti.
Un’ulteriore ricompensa per la perseveranza arriva nella sequenza dei brani poiché, al rovescio della consueta saggezza sulla sequenza, le ultime tre tracce sono probabilmente le migliori del lotto, costruendo attraverso Why’d You Have To Bring Me Flowers? e Time Difference fino al crescendo ancora misurato del brano che dà il titolo all’album.
Un trionfo del less is more e della sostanza sulla gratificazione immediata, è intrigante pensare a come Fatal Optimist sarà visto tra quattro decadi. Un cult riscoperto solo dagli ossessionati o un classico riconsiderato nel corpus di un’artista maggiore? Potrebbe benissimo essere la seconda ipotesi, ma comunque, le sue qualità contro lo Zeitgeist faranno sì che suoni altrettanto bene allora quanto ora.
8/10
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