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Bruce Springsteen – Tracks II: Gli Album Smarriti

Bruce Springsteen – Tracks II: Gli Album Smarriti

      COVID-19 ci ha fatto fare a tutti delle cose piuttosto folli. Dalle governanze che infrangevano le leggi alle congas imbarazzanti su e giù per le strade suburbane dell’Inghilterra centrale—sì, una di queste è ovviamente peggiore, ma entrambe si sono rivelate ugualmente traumatiche per la psiche—abbiamo tutti perso il senno in seguito a quella pandemia. Bruce Springsteen, creatore di alcuni degli album migliori che tu possa mai ascoltare nella tua vita, ha scelto di trascorrere il suo tempo immerso in una fossa di disperazione più personale, ma non meno dolorosa. Con il senno di poi, la produzione degli anni '90 di Springsteen non è così sprezzante come i critici contemporanei hanno detto. Certo, il doppio album ‘Lucky Town’ e ‘Human Touch’ non sono all’altezza delle vette di ‘Born to Run’ e ‘Darkness on the Edge of Town’, ma nessuno può mantenere quel tipo di grandezza per sempre, e Bruce è rimasto al suo massimo splendore molto più a lungo della maggior parte.

      Un viaggio iniziato con lui che affrontava il materiale lasciato sullo scaffale da uno dei decenni più turbolenti della sua carriera si è esteso a un seguito alla raccolta del 1998 ‘Tracks’, una collezione di materiale inedito che attraversava tutta la sua carriera fino a quel momento. ‘Tracks II: The Lost Albums’ è tutt’altro animale. Qui, non ci vengono presentati semplici frammenti di Springsteen, famoso per la sua autocritica, tratti da album che sono stati pubblicati e, spesso, sono stati dei successi. Con questo box set abbiamo interi album che non sono mai stati visti prima, che coprono i picchi commerciali dei primi anni ’80, passando per i ‘difficili’ anni ’90, e una carriera nel XXI secolo che lo ha posizionato fermamente come il supremo anziano di Americana di centro abitato. È un'immersione profonda in alcuni passaggi più misteriosi di questa carriera storica e intraprendente, riempiendo i vuoti e allo stesso tempo aprendo nuovi punti di partenza per conversazioni su come potrebbe essere evoluto l’eredità di Springsteen se questi dischi fossero usciti prima d’ora.

      Su carta, ‘Tracks II’ appare come un'agiografia smaccata, e non è che Springsteen sia un artista che potrebbe fare flop producendo cose solo per i suoi più fervidi seguaci. Tuttavia, quando ci si addentra, la cosa più sorprendente—tra tante—è quanto sia accessibile e di qualità la maggior parte del materiale. Se sei cinico, probabilmente diresti che questo deriva dal fatto che Springsteen tende a dipingere a grandi tratti, ma in realtà è semplicemente una prova di come, a un livello primordiale, musica di questo genere si senta come un terreno comune dove tutti possono trovare qualcosa da amare e a cui aggrapparsi. Prima che questi dischi uscissero dallo scaffale, su cui alcuni erano posizionati da più di quattro decenni, già poteva vantare uno dei cataloghi più coerenti e costantemente eccellenti nella storia della musica moderna. ‘Tracks II’ dimostra, se ancora ce n’era bisogno, che tutto ciò non è affatto casuale.

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      LA Garage Sessions ’83:

      Le ‘LA Garage Sessions ’83’ colmano l’anello più affascinante della sua carriera fino a oggi. È sempre stato un mistero come Springsteen sia riuscito a passare facilmente dall’introspezione di ‘Nebraska’ del 1982 al maximalismo di ‘Born in the U.S.A.’ del 1984—la risposta deve essere più di un semplice “è tornato con la E Street Band”. Queste sessioni danno alcune chiavi di lettura, lasciando però intatto qualche enigma. Il riflesso di ‘Nebraska’ si percepisce chiaramente, soprattutto in brani come ‘Fugitive’s Dream’, che fa del Garage del titolo dell’album il luogo più intimo in cui il Boss si sia mai trovato. Oppure, brani come ‘Follow That Dream’ e il breve ma incisivo ‘Little Girl Like You’ mostrano la sua versione più espressiva, un aspetto con cui si sarebbe sentito più a suo agio mano a mano che i brani di ‘Born in the USA’ continuavano a manifestarsi. La capacità di muoversi tra vari stati d’animo e toni qui dimostra ancora una volta quanto radicata sia la sua scrittura musicale, e quanto il studio di registrazione sia il luogo in cui si manifesta la diversità della sua produzione.

      È difficile prevedere quanti tra i brani registrati durante queste sessioni avrebbero realmente conquistato il pubblico. Tuttavia, si ha la sensazione che più di 40 anni di circolazione di tracce come ‘Black Mountain Ballad’ o ‘The Klansman’, attraverso mixtape, CD masterizzati o playlist di fan vecchi e nuovi, avrebbero aggiunto ulteriori gemme al già ampio e accettato canone springsteeniano. ‘Born in the U.S.A.’ è la prova di quanto la perfezionismo di Springsteen sia stato cruciale per i suoi più grandi successi. Per quanto rappresenti un esempio del suo talento come forse il più grande interprete di Americana in tutto lo stadio, non dobbiamo dimenticare che alla fine sono stati circa 70-90 i brani considerati per la versione finale. Sarebbe potuto facilmente diventare un doppio album, sbilanciandosi e appesantendosi fino a diventare troppo grande per il suo stesso bene. Pezzi come ‘One Love’ e ‘Unsatisfied Heart’, entrambi brani di notevole livello, non trovano posto nella coesione dell’album finale, rafforzando l’idea che Springsteen sia tanto un eccellente editore quanto un grande performer davanti a migliaia di fan.

      Streets of Philadelphia Sessions:

      Con il secondo disco del box set cambiamo registro, sia in termini di qualità di registrazione sia di stile. ‘Streets of Philadelphia’, la canzone che gli valgì l’Oscar, rappresenta un abbinamento silenzioso di synth e drum loop su cui Springsteen fornisce una dichiarazione sonora autorevole, un misto di politica e prospettiva ‘popolare’ che ha profondamente contraddistinto la sua carriera. Sin dall’inizio di ‘Blind Spot’, si vede come le sfumature di questa fase della sua musica siano più di semplici esperimenti isolati. Si infila bene in questo mood, e trascorre poco più di 40 minuti esplorando cosa questo sound possa offrire.

      Ci sono momenti in cui si fa più energico e trascinante, come in ‘Maybe I Don’t Know You’ e ‘One Beautiful Morning’, ma i margini arrotondati e il calore costante sono ancora lì, visibili. Non ha intenzione di irritare gli ascoltatori, ma piuttosto di condurli verso un sentimento di affetto stabile. Anche quando i synth vengono messi in secondo piano, sostituiti da strumenti più tradizionali come le chitarre acustiche di ‘Something in the Well’, questa musica rimane unica nel suo genere, propria di questa fase della sua carriera. Più sobria rispetto a molte cose di ‘Born in the USA’, meno epica e romantica rispetto a ‘Tunnel of Love’, e, beh, certamente migliore di ‘Human Touch’ e ‘Lucky Town’.

      È una raccolta di brani forte, che rappresenta il primo—ma non l’ultimo—momento ‘what if’ del box set, lasciandoci immaginare una timeline alternativa in cui questa sarebbe stata la sua migliore produzione degli anni ’90. Dal punto di vista lirico, ‘The Ghost of Tom Joad’ del 1995 resta un esempio più calzante del genio di Springsteen rispetto a tutto ciò che si può trovare qui, ma anche in modalità di crociera, ha un modo di usare le parole che lo pone ben sopra la maggior parte dei suoi contemporanei. Se si aggiungesse ‘Streets of Philadelphia’ alla tracklist, si avrebbe davvero qualcosa di molto coerente musicalmente e invitante, che spinge a tornare più e più volte.

      Faithless:

      Tra metà anni 2000, Springsteen si è dedicato anima e corpo all’esplorazione delle radici dell’Americana. All’inizio del 2005 ci ha regalato ‘Devils & Dust’. Un anno dopo, è uscito il suo album di cover di Pete Seeger, un piccolo gioiello spesso trascurato tra le sue ultime uscite. Se mai ci fosse stato un momento in cui avrebbe potuto scrivere e registrare una colonna sonora per un ‘western spirituale’ che però non sarebbe mai stato realizzato, sarebbe stato proprio in quel periodo.

      E così abbiamo ‘Faithless’, un album di suoni di strimpellate, mormorii e sforzi. Ovunque si guardi, si percepisce un ruminare serio, con una spruzzata di retorica evangelica. I momenti strumentali di questo album assicurano che le immagini di sterpaglie che cadono e di un deserto americano desolato non escano mai dalla mente, ma i contributi lirici e vocali di Springsteen fanno domandarsi se già sapesse che questo progetto non avrebbe portato da nessuna parte. È l’unico disco in questo box set che si percepisce veramente insignificante, offrendo qualcosa ai collezionisti e restituendo 35 minuti ai fan più casual che lo hanno trovato per caso.

      Momenti di autentico slancio e valore, come in ‘All God’s Children’, che più facilmente si spostano verso una parodia consapevole che verso una meditazione autentica e rapita, con Springsteen che si dà da fare senza motivo apparente se non per risvegliare chi ascolta, che potrebbe anche controllare le palpebre per un po’. Tuttavia, come nel suo percorso generale, non ci mette molto a raddrizzare la rotta, e il resto degli album di ‘Tracks II’ più di giustificano la loro presenza, compensando questa relativa mediocrità.

      Somewhere North of Nashville:

      L’apertura del doppio album del 1980 ‘The River’ offre un’ottima intuizione su Springsteen e la E Street Band nel loro habitat naturale. È una sequenza di brani che suonano come il lavoro di una band che si è fatta le ossa nei bar pieni di birra e di fumo del New Jersey.

      Quindici anni più tardi, un Springsteen più serio e introspettivo ha pubblicato ‘The Ghost of Tom Joad’, un album che trasmette tutta la calma solitaria di un ranger solitario, nel deserto con solo chitarra, falò e pensieri. Accanto a questo, Springsteen ha anche registrato ‘Somewhere North of Nashville’, un album che mostra Springsteen, il leader della band da bar, nel suo modo più estroverso e libero.

      ‘Repo Man’, ‘Tiger Rose’, ‘Detail Man’ e ‘Stand On It’ vedono il Boss lasciarsi andare e divertirsi. Ci sono anche momenti più silenziosi e riflessivi, come in ‘Under a Big Sky’ e ‘You’re Gonna Miss Me When I’m Gone’, ma niente che possa eguagliare la solitudine di ‘…Tom Joad’. La principale lezione di questo disco, però, è che gli anni successivi a ‘Tunnel of Love’ non sono stati solo neri e tragici come si pensa spesso. C’era divertimento anche negli anni ‘90 di Springsteen, e finalmente abbiamo la prova.

      Inyo:

      Nato dalla stessa era creativa di ‘The Ghost of Tom Joad’, ‘Inyo’ presenta una serie di brani scritti e registrati durante il tour di due anni che ha supportato quel disco. In un certo senso, può essere visto come un album complementare, una raccolta di B-side che arricchiscono alcune idee e introducono nuove textures, come in ‘The Last Charro’, dove Springsteen si avventura al sud della frontiera per alcuni ritmi e melodie centroamericani.

      ‘Inyo’ è un esempio, come le ‘Sessions del 1983’di Philadelphia, di un altro momento ‘what if’. C’è tanto qui quanto nel ‘Tom Joad’ che meriterebbe di veder la luce, con tracce come ‘The Aztec Dance’ e ‘Our Lady of Monroe’, tra le più acutamente belle che Springsteen abbia prodotto in quel decennio.

      Twilight Hours:

      Si percepisce la differenza d’età nella voce di Springsteen già nelle prime note di ‘Sunday Love’, che riempiono gli altoparlanti. Una selezione di brani registrati tra il 2010-11 e il 2017-18, quest’ultimo anno in cui è nato ‘Western Stars’, questa raccolta di pezzi rappresenta un periodo in cui si manifesta appieno il ruolo di anziano statista.

      Springsteen appare più stanco, ma—come in ‘Western Stars’ e ‘Letter To You’—non meno appassionato e dedicato alla propria arte. Brani come ‘Lonely Town’, ‘High Sierra’ e ‘Another You’ riescono a coniugare strumenti classici e ampi, tra chitarra, batteria, basso, synth e qualche stringa, con una maestria rara.

      Proprio come le ‘Garage Sessions’ o le ‘Philadelphia Sessions’, che ci offrono un’idea di cosa altro il Boss stesse preparando in quei momenti storici, ‘Twilight Hours’ dimostra quanto la sua creatività sia ancora viva, più di quaranta anni dopo che gli è stato kommunemente dato il soprannome di “futuro del rock and roll”.

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      Perfect World:

      L’album meno coerente di tutto il set si trova nell’ultimo disco. Qui Springsteen raccoglie brani provenienti da diverse sessioni tra il 1994 e il 2011, quindi le linee narrative che legavano gli altri lavori di ‘Tracks II’ sono meno evidenti. Questo scioglie un po’ le briglie e permette alla raccolta di avere una sorta di 'gara di celebrazione' più spontanea, meno vincolata dalle sequenze temporali. Sebbene ciò limiti un po’ l’idea di ‘what if’, è un digest molto benvenuto, che arriva dopo oltre quattro ore e mezza di materiale.

      Si presenta come una collezione allegra e spensierata, che non si prende troppo sul serio né cerca di convincere a tutti i costi sulla sua importanza. È Springsteen al suo massimo carisma—una selezione di tracce che sprizzano energia e vitalità, come ‘I’m Not Sleeping’ e ‘You Lifted Me Up’, che ti fanno venire voglia di ascoltarle senza sosta. In molti modi, è il palcoscenico perfetto per questa raccolta, più concentrata a portare ordine nel caos dei brani perduti di Springsteen, celebrandolo nel suo spirito più festoso, perfettamente adatto a questa occasione.

      In generale, la musica, e questo tipo di release in particolare, dovrebbe sempre andare oltre il semplice conteggio di numeri. Per ‘Tracks II: The Lost Albums’, più di cinque ore di materiale sono molto di più della somma delle sue parti, illuminando tanti momenti cruciali e di transizione nella carriera di Springsteen: un vero miracolo.

      Ovviamente, in questa raccolta ci saranno più cose per i fan più accaniti che per i nuovi ascoltatori, e la sua enorme dimensione la rende poco attraente come punto di partenza. Ma è un’offerta di rara profondità e trasparenza, che consente a chi decide di affrontarla di scoprire un vero talento, in un modo che, se il decennio degli anni '90 fosse andato diversamente, forse non sarebbe mai stato possibile.

      8/10

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